Premessa

Quando pensiamo ai “primi cristiani” siamo intuitivamente portati a sublimare il concetto di questo originario nucleo di credenti per semplice associazione alla mitica epoca in cui si formarono e vissero. E’ fuor di dubbio che l’epoca a cui ci riferiamo è unica ed irripetibile per i fatti portentosi che vi si verificarono a partire dall’evento straordinario della nascita della Chiesa nel giorno della Pentecoste, ma anche per la presenza dei dodici apostoli, per l’eccellenza del loro ruolo (“…mi sarete testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea e Samaria e fino alle estremità della terra” Atti 1:8), per l’importanza della loro missione (“Andate dunque, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutte le cose che vi ho comandate” Matteo 28:19-20), per la suprema autorità conferita (“Chi ascolta voi ascolta me” Luca 10:66), per la diretta e irripetibile assistenza loro accordata (“guidandoli in tutta la verità, insegnando loro ogni cosa, rammentando tutto ciò che Gesù aveva loro detto e annunziando loro le cose a venire” Giovanni 14:26; 16:13). Ma se l’origine, il consolidamento e la diffusione del Cristianesimo nel suo primo evolversi, passa attraverso gloriosi eventi, eroici compiti, sublimi influenze, non dobbiamo dimenticare che alla base di tutto ciò, anche in quella lontana, mitica epoca, c’è l’uomo con tutti i suoi carnali limiti e con i suoi nobilissimi slanci. Chi furono dunque i primi cristiani?

Pronti e determinati nel rispondere a Cristo

Un aspetto veramente caratterizzante di coloro che formarono la prima congregazione è l’immediatezza e la prontezza dello slancio con cui la stragrande maggioranza di loro aderisce al richiamo. I primi quattro chiamati erano semplici pescatori intenti al loro umile lavoro e quindi ignari degli eventi che incombevano. Ma la fulmineità dell’invito non è inferiore alla prontezza dell’adesione, tanto da farci riflettere amaramente sulla riluttanza, il sospetto se non addirittura la contrarietà che si riscontra ai nostri giorni:

Venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini, ed essi [Simone ed Andrea], lasciate prontamente le reti lo seguirono. E passato più oltre vide due altri fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni, i quali, nella barca, con Zebedeo loro padre, riassettavano le reti, e li chiamò. Ed essi, lasciata subito la barca e il loro padre, lo seguirono. (Matteo 4:19-22)

Possiamo immaginare che il messaggio del Signore doveva essere di un fascino travolgente, soprattutto per la divinità dei suoi contenuti, ma non possiamo fare a meno di apprezzare l’abbandono, l’incondizionato riconoscimento che caratterizza molti dei primi seguaci, di tutte le estrazioni sociali, il quale sembra, ai nostri giorni, essere scomparso dalla faccia della terra. Un centurione di Capernaum riuscì persino a meravigliare Gesù con la sua accorata richiesta: “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, ma dì soltanto una parola e il mio servitore sarà guarito” (Matteo 8:8). “Io vi dico in verità che in nessuno, in Israele, ho trovato cotanta fede”. Uno scriba, di cultura certamente superiore, ci impressiona per la sua illimitata dedizione: 

Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai. (Matteo 8:19)

Un gabelliere (Matteo) sedeva al banco della gabella “e Gesù gli disse: seguimi! Ed egli levatosi lo seguì” (Matteo 9:9). Una donna affetta da un’emorragia continua che nessuno aveva potuto guarire così si rivolge a Cristo: 

Sol ch’io tocchi la tua veste sarò guarita. (Matteo 9:21)

Si tratta quindi di una predisposizione sincera e diffusa che certamente gioca un ruolo determinante nel formarsi e nel moltiplicarsi dei primi cristiani. 

Chi erano e quanti erano

Il primo nucleo si materializza a Gerusalemme. Alla strepitosa predicazione di apertura di Pietro rispondono, con slancio, circa tremila persone (Atti 2:41), ma in pochi giorni, per la travolgente attività degli apostoli accompagnata da opere potenti e da prodigi, i seguaci di Cristo diventano circa cinquemila (Atti 4:4). E’ ragionevole pensare che un numero così ragguardevole di individui comprendesse uomini di ogni cultura, di ogni ceto sociale, di diverse origini etniche. Non ci è dato di sapere quale fu, successivamente, il grado di perseveranza di tutti questi battezzati: presumibilmente alcuni ritornarono rapidamente nel mondo riassorbiti dalla difficoltà del primo impatto o dalla paura per i gravi atti persecutori che si andavano perpetrando ad opera del potere politico e religioso giuridico (per ben due volte Pietro e Giovanni erano stati arrestati, diffidati e minacciati e, la seconda volta, perfino bastonati). Diversi altri, essendo stranieri, ritornarono ai luoghi d’origine, contribuendo alla diffusione del Cristianesimo. Certo è che l’assemblea della comunità di Gerusalemme, come ci viene presentata in Atti 4:31, sembra essere molto meno numerosa di cinquemila persone. Ed è proprio grazie a questo drastico ridimensionamento che ci è possibile delineare, sia pur sommariamente i tratti salienti della prima comunità cristiana, secondo gli elementi desumibili dai Fatti degli Apostoli. Quanto a composizione appare evidente che si trattasse di ebrei nati in Palestina a cui si aggiungeva una minoranza di ebrei originari di altri paesi (ellenisti). Sta di fatto che questa prima comunità fu fortemente incline alla continuazione di pratiche giudaiche (frequentazione del tempio, rispetto di feste, digiuni, osservanza di prescrizioni religiose ed igieniche, ecc.) coesistenti ad assidue adunanze cristiane, addirittura quotidiane, in case private, ove si ascoltavano gli insegnamenti apostolici, si pregava, si spezzava il pane:

Ed erano perseveranti nell’attendere all’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere. (Atti 2:42)

Coesione ed unità nello spirito e nella preghiera 

E’ comprensibile dunque come l’effetto principale di questa assiduità e fedeltà dottrinale garantita dalla presenza degli apostoli fosse un evidente senso di coesione e di unità. Di questa congregazione ci viene riferito sinteticamente (Atti 4:32) che “era d’un cuor solo e di un’anima sola” per significare che ad una grande e cosmopolita fratellanza fece riscontro uno spirito di fraternità e di unità mai più eguagliata nella storia del Cristianesimo. Per tale motivo, e soprattutto a causa della evidente inconsistenza dei legami spirituali ed affettivi che contraddistingue le moderne comunità, la Chiesa di Gerusalemme ci appare meritevole di devota osservazione e di attenta emulazione. I primi cristiani si dedicarono molto alla preghiera. Si pregava regolarmente nelle assemblee ma si organizzavano anche speciali riunioni di preghiera. In occasione della carcerazione di Pietro i cristiani si riunirono in casa di Maria, madre di Giovanni Marco e pregarono con grande intensità e fervore per la sua liberazione che avvenne quella stessa notte (Atti 12:1-12). La preghiera nella chiesa è fondamentale per il suo sviluppo spirituale e per imprimere efficacia all’accoglimento delle richieste. Quale meravigliosa potenza risiede nella pratica della preghiera! Eppure quanto poco e con quanta superficialità si prega insieme nelle comunità di oggi!

La comunione dei beni 

Si tratta dunque di un’epoca di intenso fervore cristiano, ove, in assenza di regole pratiche consolidate e di una salda organizzazione comunitaria, si verificano anche iniziative, quale la comunione dei beni, le cui motivazioni, al di là dell’amore e della spontaneità che distintamente affiorano, sono ancora oggetto di dibattito, ma i cui effetti non furono privi di conseguenze anche negative. E’ ragionevole supporre che la comunità di Gerusalemme, essendosi formata per prima e comprendendo una numerosa componente di membri originari di altri paesi, costituisse inizialmente un punto di riferimento e fosse oggetto di molte visite da parte di forestieri. L’esercizio dell’amore e dell’ospitalità verso stranieri residenti a Gerusalemme, privi di risorse per la lontananza dal loro paese di origine, e verso visitatori esterni sicuramente bisognosi di ogni cosa, dovette mettere a dura prova le risorse dei fratelli locali tanto da indurli a praticare una sorta di comunione dei beni a cui indubbiamente ciascuno contribuì spontaneamente secondo le proprie disponibilità e spesso spogliandosi di ogni cosa. Tale esperienza, mai ripetuta altrove, fu caratterizzata da grande generosità e soprattutto da totale assenza di imposizione da parte degli apostoli. Ma a dimostrazione dell’eterogeneità di convinzione interiore e di maturità spirituale, non mancarono episodi scarsamente edificanti come quello famoso di Anania e Saffira (Atti 5:1-10).

Il dissenso degli ellenisti 

D’altro canto, tale forma di cassa comune, da cui tutti dovevano trarre il necessario sostentamento quotidiano, impose una forma organizzativa che non mancò di provocare malcontenti e lamentele. In Atti 6:1 ci si narra: 

Or in quei giorni, moltiplicandosi il numero dei discepoli, sorse un mormorio degli Ellenisti contro gli Ebrei perché le loro vedove erano trascurate nell’assistenza quotidiana.

L’atteggiamento di riguardo verso una o più persone piuttosto che verso altre è una propensione da cui non furono esenti nemmeno i primi cristiani di Gerusalemme. Anche nella chiesa che godeva della preziosissima presenza degli Apostoli si venne a manifestare la prima contrapposizione di gruppi tra ebrei palestinesi ed ebrei ellenisti. Indubbiamente tra i due gruppi sussistevano notevoli differenziazioni nella lingua (i primi parlavano aramaico i secondi preferibilmente greco), nella pratica religiosa (i primi più inclini a perpetrare il rispetto della Legge i secondi meno rigidi e più tolleranti), nelle consuetudini. Tali aspetti avranno certamente costituito motivo di discussione e di tensione tanto che il diverso trattamento delle vedove elleniste nella distribuzione dei pasti dovette essere un episodio sicuramente marginale. Come è noto il problema fu superato costituendo sette uomini addetti all’amministrazione delle risorse, sette uomini “di buona testimonianza, pieni di spirito e di sapienza”, quasi sicuramente tutti di estrazione ellenista come dimostrano i loro nomi greci (Stefano, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmene e Nicola di Antiochia). L’evento ci appare interessante in quanto è questa l’origine del diaconato, ma ancora più interessante appare il fatto che la totalità della chiesa non ebbe difficoltà ad affidare l’incarico di amministrare le risorse quotidianamente disponibili, proprio a uomini provenienti dalla parte che si considerava danneggiata: “e questo ragionamento piacque a tutta la moltitudine” Atti 6:5. Questo ci fa comprendere che tra i primi cristiani non si radicarono atteggiamenti di divisione anche in quelle circostanze in cui, apparentemente, affioravano sospetti di indebito riguardo o ingiustificate preferenze, ma al contrario le difficoltà venivano superate proprio manifestando la più ampia disponibilità e buona fede. Quanto hanno da imparare le comunità moderne, ove spesso l’ombra di un sospetto o l’insorgere di qualche banale divergenza covano a lungo negli anni, si consolidano e amplificano la loro azione proprio come un lievito maligno che è in grado di far fermentare tutta la pasta provocando insondabili lacerazioni. 

Coraggio e fedeltà

Tra i sette prescelti eccellevano i nomi di Filippo e Stefano, le cui gesta sono note a tutti e, specialmente per quanto concerne quest’ultimo “pieno di grazia e di potenza”, si può ritenere che egli rappresenti la sublimazione del coraggio e della fedeltà, spinta fino alle estreme conseguenze, che contraddistinse i primi cristiani di Gerusalemme, i quali, a partire dal martirio di Stefano, furono chiamati ad una prova di sofferenza e di dolore a cui non si sottrassero e che consentì al Cristianesimo primitivo di espandersi in tutto il mondo allora conosciuto. Già Pietro aveva dato ampia dimostrazione di coraggio rintuzzando memorabilmente le intimidazioni e le minacce: “bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini” (Atti 5:29). Ma il merito di Stefano, al di là della sua ineguagliabile forza d’animo, sta nell’aver intuito l’universalità del messaggio di Cristo il quale non costituiva una banale ramificazione del Giudaismo ma si staccava nettamente dal Tempio per irradiare in tutto il mondo quel culto “in spirito e verità” preconizzato da Cristo (Giovanni 4:21-24). Stefano infatti si impose tragicamente all’attenzione dei suoi mortali nemici disputando coraggiosamente con i membri della “sinagoga detta dei Liberti, dei Cirenei e degli Alessandrini e di quelli della Cilicia e dell’Asia” (Atti 6:9) ed il suo messaggio preannunciava la fine del Giudaismo e il sopravvento di Cristo (Atti 6:14).

E’ intuibile come la proclamazione di idee così innovative gli procurò l’odio di nemici mortali. Arrestato e costretto a difendersi davanti al Sinedrio, ci ha tramandato quella sua memorabile requisitoria in cui ripercorse come in un indimenticabile testamento i capisaldi della sua predicazione, mise sotto accusa i suoi stessi accusatori imputando loro il tradimento e l’uccisione del Cristo, l’ignoranza e l’inosservanza della Legge. Il suo discorso è rimasto incompiuto ma il suo messaggio si è rivelato esplosivo per effetto della persecuzione diretta specialmente verso gli Ellenisti e della loro successiva diaspora. 

La questione della circoncisione 

Se i primi cristiani di Gerusalemme ci hanno offerto un grandissimo esempio di coerenza e di forza d’animo anche nelle più terribili sofferenze, la loro più luminosa dimostrazione di fedeltà all’insegnamento degli apostoli ci proviene dal modo con cui affrontarono la questione della circoncisione, di per se stessa delicatissima in quanto si trattava di una questione dottrinale. L’episodio ci è noto in quanto ci viene narrato in tutta la sua drammaticità in Atti 15:1-29. La verità venne presentata dagli anziani e dagli Apostoli a tutta la chiesa senza reticenze anche se fu oggetto di una “gran disputa” ed a conclusione di appassionati interventi si giunse ad una soluzione unanime ed univoca. La chiesa unita provvide a redigere una dichiarazione scritta da divulgare sull’argomento. Così la controversia si concluse con il sopravvento dell’insegnamento apostolico sui pregiudizi, le tradizioni e le eredità affettive sanzionata dalle Scritture in Atti 6:7: 

E la Parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli si moltiplicava grandemente in Gerusalemme; ed anche una gran quantità di sacerdoti ubbidiva alla fede.

Conclusione 

I primi cristiani dunque ci hanno proposto un incrollabile spirito di unità e fratellanza tanto più apprezzabile in quanto instauratosi in una comunità di composizione variegata ed eterogenea. La congregazione di Gerusalemme in particolare, guidata dagli Apostoli, si contraddistingue per l’oculata selezione dei suoi ministri e per l’ordine e l’amore con cui seppe affrontare ogni suo problema di carattere organizzativo o dottrinale. Il risultato più eclatante è la conversione di migliaia di anime nel breve periodo di tre anni. Una congregazione di fedeli assidua nel radunarsi e pronta ad esprimere una liberalità rimasta ineguagliata nella storia del Cristianesimo. Una chiesa la cui dolorosa diaspora ha prodotto all’esterno l’inarrestabile diffusione dell’Evangelo e all’interno una clamorosa vittoria sull’illegale opposizione degli atei sadducei, degli arroganti farisei e di uno Stato persecutore e crudele. Il loro insegnamento e il loro esempio rimane per noi ineguagliabile.