Nel racconto della prima prigionia subita dall’apostolo Paolo si succedono tre personaggi che hanno tra di loro ruoli diversi e decisivi.

Gli avvenimenti iniziano al ritorno a Gerusalemme dell’Apostolo dal suo terzo viaggio missionario (58 d.C.). Il clima che si respira in città non è certo favorevole per l’Apostolo. Nell’aria gravano i sentimenti ostili che migliaia di Giudei nutrono verso di lui, considerato ormai un nemico della Legge mosaica perché li sollecita ad abbandonare Mosè.

Va ricordato che la Legge mosaica costituisce per i Giudei qualcosa di più di una normativa puramente spirituale. Essa regola tutti gli aspetti della loro vita civile, sociale e religiosa. I Giudei che si sono convertiti a Cristo non hanno dismesso i costumi nazionali e le norme vigenti, così come avviene oggi per qualunque convertito che proviene da una falsa religione. Le leggi locali e nazionali continuano a vigere. Certamente, Paolo insegna che la Legge mosaica è stata inchiodata sulla croce (cfr. Colossesi 2:14) e sollecita i Giudei a non circoncidere i figli e a non conformarsi a riti ormai vuoti, superati e privi di senso. La sua predicazione è lineare. Tuttavia, Paolo non ha mai insegnato che le formalità civili, sociali o religiose siano in sé stesse peccaminose al pari del culto idolatrico. Il peccato innegabile e trasparente è sostenere che la Legge sia vincolante alla salvezza (cfr. Galati 2:21; 5:1-4).

Una settimana dopo l’arrivo a Gerusalemme Paolo si reca al tempio. Qui i Giudei, che disprezzano l’apostolo, riescono a scatenare un tumulto e i facinorosi tentano di linciarlo. A Gerusalemme c’è una folla numerosa visto che si è vicini alla Pentecoste (cade cinquanta giorni dopo la Pasqua) e Paolo è partito da Filippi subito dopo la Pasqua (Atti 20:6) per essere a Gerusalemme proprio in tempo per questa festa.

All’accedersi del tumulto, il tribuno romano Claudio Lisia, che comanda una coorte di mille soldati, interviene e Paolo viene preso e legato con due catene. L’apostolo allora si qualifica come un Giudeo di Tarso di Cilicia e chiede al tribuno di parlare al popolo in propria difesa (Atti 22). Il tribuno acconsente e Paolo si rivolge al popolo parlando in ebraico. La gente lo ascolta in silenzio fino a quando l’apostolo afferma che Il Signore lo ha scelto per annunciare il Vangelo ai Gentili. Questo non può essere tollerato e i Giudei iniziano a chiederne la morte stracciandosi le vesti e lanciando in aria la polvere.

Il tribuno, allora, ordina che Paolo sia condotto nella fortezza e flagellato. Lo storico romano Tacito racconta che su dieci persone che venivano flagellate sette non sopravvivevano, mentre le altre tre rimanevano storpiate a vita (Hist., 4. 27; Eusebio, Hist. Eccl., IV. 15).

Mentre si fanno i preparativi per eseguire la sentenza Paolo si rivolge a un centurione chiedendo se sia lecito flagellare un cittadino romano senza che sia stato prima condannato o almeno inquisito. La legge romana, infatti, vieta la carcerazione o la flagellazione dei suoi cittadini senza un giusto processo e Claudio Lisia rischia egli stesso la pena di morte violando questa legge. Il tribuno capisce immediatamente il grosso guaio in cui si è cacciato. Fa slegare il prigioniero e ordina ai sacerdoti e al Sinedrio di riunirsi per spiegargli quali siano le accuse mosse contro un cittadino romano.

Nonostante l’intelligente discorso di Paolo davanti al Sinedrio (Atti 23) che, parlando della resurrezione, riesce a mettere i Sadducei e i Farisei l’uno contro l’altro, ancora una volta il tribuno deve intervenire per salvare Paolo senza che gli sia stata mossa un’accusa precisa. I Giudei, allora, non riuscendo a ottenere la condanna a morte di Paolo per vie legali, organizzano un complotto: più di 40 Giudei fanno voto di non mangiare o bere prima di aver ucciso l’apostolo. Claudio Lisia viene informato della congiura e Paolo viene condotto al sicuro a Cesarea per essere giudicato direttamente dal governatore Felice, il primo dei nostri protagonisti.

MARCO ANTONIO FELICE

Felice è il procuratore della provincia di Giudea dal 52 al 60. Felice governa molto duramente in modo crudele e immorale. Felice è un ex schiavo di Antonia, figlia di Marco Antonio e di Ottavia minore la sorella dell’imperatore Augusto. Antonia minore è la madre dell’imperatore Claudio. Come riferisce Svetonio, Felice entra nelle grazie di Claudio e dopo essere stato comandante presso alcune coorti e alcune ali della cavalleria è chiamato da Claudio a governare la provincia della Giudea.  In seguito, sposa Drusilla la sorella di Agrippa, già moglie di Aziz re di Emesa (Atti 24:24).

Cinque giorni dopo l’arresto e il trasferimento notturno dell’apostolo a Cesarea, arrivano anche il Sommo Sacerdote, gli Anziani e un certo avvocato di nome Tertullo per accusare Paolo davanti al governatore. Le accuse sono false e pretestuose e Felice è abbastanza informato sui cristiani e sulle fazioni del Giudaismo, tanto da non lasciarsi ingannare dalle distorsioni operate da Tertullo e dagli Anziani. Non volendo tuttavia scontentare il Sinedrio, né condannare un innocente, prende tempo e tiene Paolo in prigione per due anni, anche perché spera di guadagnarci qualcosa. Tacito lo definisce una persona molto avida.

Alcuni giorni dopo questi avvenimenti, Felice e la moglie Drusilla mandano a chiamare Paolo per sentirlo riguardo la sua fede. Non sappiamo se fossero spinti da curiosità o motivati da un sincero desiderio di conoscere la verità, comunque Paolo affronta la situazione con il solito coraggio. Ma cosa predicare a due personaggi del genere, adulteri, avidi, crudeli, opportunisti? Paolo parla di giustizia ponendosi in antitesi con ogni gesto, ogni azione, ogni pensiero della vita di Felice e di Drusilla. Parla di temperanza, e ogni sua parola risuona come una condanna inappellabile nei confronti di ciò che i due hanno fatto. Infine, annuncia il giusto giudizio di Dio e la responsabilità di ogni uomo verso il sangue di Cristo, gli increduli saranno condannati e i giusti salvati.

La reazione della coppia è tipica di chi rifiuta Dio: spavento e voglia di non sentire più nulla. Quanto è facile tapparsi le orecchie per sfuggire alle proprie responsabilità, ma questo atteggiamento non potrà evitare la realtà del giusto giudizio di Dio.

PORCIO FESTO

Il secondo personaggio della storia è PORCIO FESTO, procuratore della Giudea dal 60 al 62, un politico furbo ed esperto. Tre giorni dopo essersi insediato a Cesarea sale a Gerusalemme, forse per incontrarsi con le autorità dei Giudei. Queste per prima cosa gli parlano del caso di Paolo, lasciando forse balenare la possibilità di uno scambio di favori se Festo lo consegnasse nelle loro mani. Il Procuratore, ignaro degli avvenimenti precedenti, lo vorrebbe mandare indietro a Gerusalemme, ma l’apostolo consapevole che più di 40 giudei hanno fatto voto di non mangiare e bere finché non l’abbiano ucciso, appena percepisce la fragilità evidenziata da Festo, non ha alcuna esitazione a far valere il proprio diritto di cittadino romano e si appella al giudizio dell’imperatore. La decisione è molto importante. È un diritto riservato ai soli cittadini romani. Accusato e accusatori devono recarsi a Roma, a spese del governo, per essere giudicati dall’Imperatore in persona. Fino a quel momento Paolo è consapevole che resterà in prigione.

ERODE AGRIPPA II

Il terzo personaggio, quello che più ci interessa maggiormente è Agrippa (Erode Agrippa II),  il Re dei Giudei.  Agrippa sale a Cesarea per porgere un omaggio formale a Festo, il nuovo procuratore romano (Atti 25:13-21). Sua sorella minore, Drusilla, è la moglie di Felice. Anche Berenice è sua sorella e con lei ha intrecciato una relazione incestuosa. Agrippa conosce bene i contrasti tra Giudei e cristiani, in quanto la sua posizione ufficiale gli riserva la giurisdizione sul tempio, nonché la nomina dei Sommi Sacerdoti. Suo padre, Erode Agrippa I, ha fatto uccidere Giacomo (Atti 12:1-2), e suo zio, Erode Antipa, ha fatto decapitare Giovanni Battista. Quando nel 44 d.C. Erode Agrippa I muore, il figlio, che si chiama come il padre Agrippa, è a Roma e a soli diciassette anni diventa il Re dei Giudei. Di lui ci racconta diffusamente Flavio Giuseppe, mentre il libro degli Atti ne parla solo in questa occasione dell’incontro con Paolo.

Secondo Flavio Giuseppe, Agrippa ha due sorelle di dubbia reputazione, Berenice e Drusilla. Berenice sposa a soli 14 anni un certo Marco, il figlio del magistrato dei Giudei di Alessandria d’Egitto. Poi, su volere del padre, passa a seconde nozze con lo zio Erode di Calcide. Dopo la morte di quest’ultimo inizia a convivere col fratello. Per spegnere i pettegolezzi su tale unione deve sposare Polemone Re della Cilicia, ma ben presto si stnaca di lui e ritorna al legame incestuoso con il fratello.

I FATTI

L’incontro tra Agrippa e Festo prevede feste e ricevimenti che durano diversi giorni. Festo sa che Agrippa è abbastanza competente sulle credenze e sui pregiudizi dei Giudei e pensa bene di interpellarlo circa il caso di Paolo sperando di riceverne qualche prezioso suggerimento. Riassume al Re le circostanze che hanno spinto Paolo a appellarsi a Cesare e manifesta la sua perplessità sulle accuse che sono state mosse all’apostolo. Festo non conosce Gesù (lo definisce un certo Gesù”), eppure è più di 25 anni che il Vangelo è annunciato e a Roma vi sono già numerose chiese. Ma chi non ha tempo non si cura di niente. Ancora oggi molte persone sono troppo prese dal lavoro, dalla famiglia, dallo studio, dalla vita di tutti i giorni. Per costoro, così come per Festo, Cristo resterà sempre “un certo Gesù” privo di interesse.

Anche se Agrippa non ha giurisdizione alcuna su Paolo, è comunque interessato a sentire quello che ha da dire, forse anche solo per mera curiosità. Dal canto suo Paolo è contento di parlare al Re che sicuramente si intende di religione molto più di Festo. Aveva solo 17 anni quando il padre è morto, ora ne ha poco più di 30 e si fregia del titolo di Re dei Giudei.

L’incontro tra il Re e Paolo avviene in una cornice speciale. La Scrittura afferma che fu celebrata con molta pompa. Immaginiamo Festo con il suo mantello di porpora, Agrippa con la corona da Re, la bella Berenice vestita sfarzosamente, i tribuni e tutti gli uomini più importanti della città di Cesarea là presenti.

L’apostolo inizia a parlare rivolgendosi direttamente ad Agrippa. Lo invita ad ascoltarlo attentamente. Tutto il suo discorso, infatti, è teso alla speranza di convertire il Re. Paolo parla del suo passato, racconta i suoi trascorsi giudaici, l’educazione ricevuta a Gerusalemme, la sua appartenenza alla rigida corrente farisea. Parla della sua conversione di come perseguitava i cristiani, ma poi ha incontrato il Signore sulla via di Damasco ed è diventato l’apostolo delle genti. Paolo sa che anche Agrippa è un Fariseo e sembra voler dire: “Io e te o re siamo davanti a tutte queste persone che non credono e siamo giudicati per questa nostra fede. Ho sbagliato nel passato, probabilmente come la tua famiglia o Re, come te”. Il vero motivo dell’odio dei Giudei non è nella falsa accusa di aver profanato il tempio, come sostengono, bensì perché predica, la resurrezione di Cristo e invita il popolo ad aprire gli occhi, affinché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ricevano per la fede in Dio, il perdono dei peccati e la loro parte di eredità tra i santificati.

Agrippa sembra turbato. Quali pensieri si agitano nel suo cuore? Forse sta pensando: “se Paolo avesse ragione, la mia famiglia ha sbagliato e anch’io forse dovrei cambiare, ravvedermi…”

Festo lo interrompe, non capisce, proprio come tanta gente: “Paolo, tu vaneggi; la molta dottrina ti mette fuor di senno”. Paolo gli risponde che non vaneggia, anzi sta esprimendo concetti di verità e sobrietà che Agrippa conosce molto bene. I fatti di cui sta parlando non sono avvenuti nell’oscurità ma alla luce e sono noti a tutto il popolo. Ora Paolo parla ancora più direttamente al Re trascurando il resto dell’uditorio. Forse ha visto nei suoi occhi qualcosa. Forse il Vangelo è penetrato nel suo cuore. Forse Agrippa è vicino al regno di Dio. Forse ha percepito che Paolo sta dicendo la verità: “Credi tu ai profeti? Io so che tu ci credi” (Atti 26:27).

La risposta del re è del tutto imprevedibile: “Quasi mi persuadi a diventar Cristiano”. Tuttavia, il coraggio gli manca. È difficile rinunciare a tutto ciò che rappresenta. È difficile cambiare la sua vita. Si alza, la sua coscienza gli impone di allontanarsi, è vicino al regno di Dio, ma il suo orgoglio, la sua testardaggine lo trattengono e lo spingono a fuggire.

Che triste sarà il giorno del giudizio per quanti hanno udito e sono stati sul punto di diventare cristiani. Agrippa è il classico esempio a dimostrazione che una semplice adesione mentale non fa diventare cristiani né salva (cfr. Giacomo 2:14-24; Giovanni 12:42-43). La fede che salva è quella che ubbidisce (cfr. Romani 6:17-18; Ebrei 5:8-9).

Il riconoscimento dell’innocenza di Paolo rappresenta la condanna per il Re Agrippa. Che altra scena se il Re si fosse gettato ai piedi dell’apostolo, se avesse riconosciuto Cristo. Quanta delusione in Paolo. La stessa che tocca ogni cristiano quando, dopo essersi illuso, anche da una sola parola, che un’anima stia per vedere la luce e tornare a Cristo, viene svegliato dalla realtà nuda e cruda del rifiuto di Dio.

Voglia Dio che nessuno oggi si comporti come Agrippa: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre” (Matteo 11:29).